Il buco. Un esordio ambizioso che vorrebbe utilizzare la fantascienza distopica in chiave metaforica senza riuscirci pienamente.

di EMILIANO BAGLIO 25/03/2020 ARTE E SPETTACOLO
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Goreng (Iván Massagué) si risveglia al quarantottesimo piano de “la fossa”.

Una struttura verticale nella quale, una volta al giorno, viene calata una piattaforma ricolma di cibo. Più si è in basso meno si mangia. A fine mese i due occupanti di ogni livello vengono addormentati e trasferiti altrove, più in alto o più in basso.

Il film d’esordio dello spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia (disponibile su Netflix) vuole essere un chiaro tentativo di utilizzare la fantascienza distopica come metafora di qualcos’altro.

Le solide basi sulle quali viene sviluppato questo progetto sono un’ottima idea di base, sviluppata egregiamente soprattutto nella prima parte, grazie ad una buona sceneggiatura, dialoghi comunque convincenti, una struttura che alterna sapientemente il presente ed i flashback, buone prove recitative ed un apparato scenografico tanto scarno quanto inquietante e convincente.

Il problema di fondo viene a galla sulla lunga distanza, soprattutto quando si tratta di trovare una conclusione alla vicenda dandole un senso.

Insomma quello che non convince è proprio l’impianto ideologico sul quale Gaztelu-Urrutia costruisce il suo edificio.

Il buco, infatti, ovviamente, può essere letto come un’immensa metafora (allo spettatore scegliere di cosa).

Tuttavia il regista alla fine appare poco convinto delle sue capacità e da vita ad un film in cui le varie metafore sono scritte a caratteri cubitali.

Il primo esempio lampante sta nella caratterizzazione del protagonista le cui motivazioni che lo hanno spinto a scendere nella fossa rimangono oscure.

A suggerirci perché si sia proposto volontario provvede il libro che si è portato dietro, quel Don Chisciotte che ci suggerisce una totale identificazione tra Goreng ed il cavaliere che combatte contro i mulini a vento.

Il buco, dunque, potrebbe essere letto come una rappresentazione plastica della suddivisione in classe della nostra società.

Tuttavia i protagonisti del film, durante la loro permanenza, vengono spostati di piano in piano, il che equivale a cambiare la loro posizione sociale e ciò è in contrasto con una lettura “politica” della pellicola in chiave di lotta di classe.

L’alternativa è che Gaztelu-Urrutia abbia voluto denunciare lo sfruttamento indiscriminato delle risorse del nostro pianeta.

Ma anche questo tipo di lettura viene vanificato dalla stessa sceneggiatura.

Il cibo, infatti, non è una risorsa naturale ma viene prodotto al livello zero da una brigata di cuochi. Certo chi cucina potrebbe essere un’impersonificazione di madre natura se non fosse che gli stessi cuochi sono a loro volta parte di un ingranaggio più grande in quanto alle dipendenze di una misteriosa amministrazione.

Proprio la presenza di questa amministrazione stride con tutta la parte finale del film nella quale i nostri protagonisti cercano un modo per far comprendere ai piani alti le distorsioni del loro progetto.

Durante lo svolgimento della storia, infatti, lo scopo di tale struttura sembra potersi ricondurre ad una sorta di esperimento sociale.

L’amministrazione, insomma, vuole vedere se in condizioni estreme, gli ospiti di questa strana prigione, saranno in grado o meno di sviluppare una sorta di solidarietà che faccia sì che anche chi sta in basso riceva comunque del cibo.

Tuttavia lo stesso Goreng, durante il suo soggiorno, si renderà conto che all’interno della fossa solo minacciando i livelli più bassi si può sviluppare un minimo di mutua solidarietà.

Dinnanzi al suo stesso fallimento al nostro non resta che scendere nell’Inferno dantesco più volte richiamato dalla struttura della fossa, nel tentativo di spartire equamente il cibo.

La sua idea è che se riusciranno a far risalire qualcosa di commestibile avranno allora dimostrato che l’esperimento è fallito.

Tuttavia, giunto finalmente sul fondo, trova una sorpresa che, ovviamente, non possiamo svelare se non rovinando la visione del film.

Ciò che possiamo dire è che quello che lo aspetta al livello 333 è la prova che l’intero sistema si regge sulla menzogna.

Proprio questa sorpresa sarà il messaggio da far risalire alla luce (ennesimo riferimento dantesco) mentre il nostro si allontana verso il nulla.

Il problema è che, in questo percorso, le assurdità, le incongruenze e le domande si affastellano in una sceneggiatura che, non sapendo dove andare a parare, perde pezzi per strada.

Com’è stato possibile infatti che i nostri eroi trovino ciò che trovano all’ultimo livello, come ci è arrivata lì questa persona, come è sopravvissuta, è sempre stata lì? Com’è possibile che non abbia mai cambiato livello? È una falla che lo stesso sistema ha volontariamente messo lì? Per non parlare di mille altri dubbi, tutti leciti.

Ma soprattutto che senso ha il finale?

Il messaggio a chi dovrebbe essere rivolto? Ai cuochi?

Se adottiamo l’ottica di una società divisa in classe i cuochi non possiedono i mezzi di produzione (il cibo) ma lo lavorano per altri (quelli che stanno nella fossa).

Eppure proprio questa contraddizione interna allo stesso film avrebbe potuto generare risposte interessanti.

Invece Il buco alla fine non fa altro che riproporre la dicotomia tra “carità cristiana” ed egoismo, spreca un ottima idea ed uno svolgimento comunque interessante in un film incapace di piegare veramente il genere ad una dimensione metaforica, in una pellicola che finisce per affastellare metafore didascaliche ed imbarazzanti buchi di sceneggiatura che dimostrano una scarsa fiducia nei mezzi stessi del cinema.

Forse Gaztelu-Urrutia ha osato troppo per il suo esordio senza avere le spalle abbastanza larghe, magari in futuro imparerà come si costruisce un solido film di genere che ambisce a parlare d’altro.

Per il momento rimangono briciole di un’ottima occasione sostanzialmente sprecata.

 

EMILIANO BAGLIO


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